«Crepa!», urlò Madelin scaricando l’AK-47 sull’alieno grigiastro che al posto della testa aveva un’enorme bocca decorata da tre file di denti seghettati.
I suoi compagni stavano sistemando le barricate come meglio potevano ma creare un perimetro sicuro sembrava un’impresa impossibile. Gli alieni saltavano oltre le palizzate o cercavano di demolirle stridendo come impazziti alla ricerca di un pasto a base di carne umana. Buttò il caricatore vuoto e ne inserì un altro appena in tempo per abbattere una creatura dalle lunghe zampe e il corpo longilineo che le si stava gettando addosso. Poi, sfruttando la copertura fornita da un’auto, si appoggiò sul cofano per darsi stabilità e sparò su tutto ciò che vedeva muoversi nell’erba alta della campagna.
«Zona est sotto controllo», disse. «Jack, come va con la barricata?».
«È complet… ma arriv… in branco!», urlò lui alle sue spalle, il segnale era disturbato. «Non… fermarli… raggiunger… città».
Bzzz…
Come se questo non bastasse, sentì vibrare il telefono. Chi diavolo doveva chiamarla proprio in quel momento?!
Bzzz…
Lo ignorò. Chiunque fosse, poteva aspettare.
«Portate il carro col vulcan e sistematelo al centro», disse. «Dobbiamo fermarli qui!».
Bzzz…
Dalla zona buia oltre al perimetro improvvisato giungevano i latrati e gli stridii degli alieni che si lanciavano alla carica, erano di ogni forma e dimensione ma avevano una cosa in comune: la frenesia omicida.
Bzzz…
«E che cazzo!», esclamò Madelin. Lanciò una granata al fosforo e afferrò il telefono. «Uff…», scostò una cuffia dell’headset dall’orecchio e rispose alla chiamata reggendolo con la spalla.
«Madelin!», le arrivò la voce del collega.
«Ciao Darren, che succede?».
«L’hanno fatto, Madelin!», disse lui. «La Space Enterprise, le voci erano vere!».
«Hanno cercato le sonde di Bracewell?!».
«Si, è ufficiale».
«Senza l’autorizzazione dell’ONU?!».
«Non ne sapeva niente nessuno. Le Nazioni Unite stanno organizzando una seduta straordinaria, il Segretario Generale è incazzato come una iena».
«Madelin?», disse Kevin nel suo orecchio sinistro. «Belle le Nazioni Unite, ma concentrati che stiamo tutti morendo qui».
«Un secondo Kev, sono al telefono per lavoro», rispose lei, poi tornò a rivolgersi a Darren. «Eh… lo credo bene, nemmeno l’ONU avrebbe avuto l’autorità morale per autorizzarne la ricerca, figurarsi un privato. Spero lo distruggano di sanzioni!», lanciò una seconda granata al fosforo oltre alla barricata mentre Jack metteva in moto il vulcan crivellando ogni forma di vita aliena osasse mostrare il suo brutto muso.
«Madelin…», disse Darren nel suo orecchio destro.
«Insomma, una decisione del genere ha impatto sull’umanità intera…», lo interruppe lei indignata ed esaltata al tempo stesso.
«Bella granata!», venne dal sinistro.
«Nel senso… come cazzo si permettono?».
«Esatto! Co… cazzo …ermettono?!», urlò Jack di rimando senza smettere di smitragliare. «Tornatev… sul vos… pianeta!».
«Madelin», disse Darren alzando la voce. «Ne hanno trovata una…».
Madelin si bloccò.
«…si è attivata, sta trasmettendo dei dati», continuò lui. «Ci servi qui».
«Madz? Stai laggando?», sentì nell’orecchio sinistro. «Ci servirebbe aiuto con questi alieni…».
Quanto cazzo avete ragione…
«Arrivo subito», disse chiudendo la chiamata.
«Ah finalmente!».
«Non dicevo a voi, mi spiace ma devo staccare».
«Ma sia… a fine …ssione!», protestò Jack.
«Lo so, cause di forza maggiore», disse. «Mi farò perdonare la prossima volta».
«Che diavol… è una son… di Brace…?»,
«Jack, fai qualcosa per quel microfono, sei insopportabile! Ciao!».
Madz ha abbandonato la partita
Si preparò in fretta e furia tanto che indossò due calzini destri, ne tolse uno ma non trovò quello spaiato quindi tolse anche l’altro e lanciò tutti e due in aria per indossarne un nuovo paio. Mentre si avviava alla porta notò il cartone della pizza sul tavolo: rimaneva un’ultima fetta. Era ormai fredda ma non sapeva se sarebbe rincasata in giornata e sarebbe stato crudele lasciarla lì tutta da sola per chissà quanto tempo, quindi l’afferrò e se l’infilò in bocca finendola mentre scendeva dalle scale. Al cartone invece un po’ di solitudine non avrebbe fatto male, si disse.
Non abitava lontana dalla NASA, era questione di soli venti minuti di macchina, ma i suoi pensieri ebbero lo stesso il tempo di divagare. Le ronzava ancora in testa la domanda di Jack: che diavolo è una sonda di Bracewell? Non poteva dire di aver effettivamente studiato l’argomento, dopotutto si trattava di un’ipotesi assurda formulata all’inizio degli anni sessanta. Frank Drake aveva appena formulato la sua equazione per stimare quante fossero le forme di vita intelligenti nell’universo e Ronald Bracewell si spinse oltre chiedendosi se fosse davvero necessario andare chissà dove per trovare delle civiltà aliene. La sua proposta si basava sul presupposto che se noi abbiamo avuto un boom tecnologico negli ultimi duecento anni che ci ha portati dalla pila di Volta al mandare dei rover su Marte, chissà quanto potrebbe essere avanzata una civiltà che ha avuto lo stesso tipo di boom tecnologico che stiamo sperimentando noi ma per un milione di anni?! La loro tecnologia sarebbe così avanzata da sembrarci magia, come disse Arthur C. Clarke.
Come noi stiamo cercando delle forme di vita sui pianeti che si trovano nelle zone abitabili delle rispettive stelle è giusto presumere che anche loro abbiano fatto i loro cataloghi e, avanzati come sono, potrebbero anche aver inviato sonde ovunque intorno a tutti i pianeti che avevano delle probabilità di generare un giorno della vita senziente, sonde che magari sono in grado di autoripararsi e rimanere dormienti per centinaia di migliaia se non milioni di anni. Questo si era chiesto Bracewell: potrebbero delle sonde aliene essere già presenti all’interno del sistema solare, in silente attesa di capire se delle forme di vita intelligenti si fossero sviluppate sulla Terra? Quando saltava fuori l’argomento, Madelin spesso scherzava con gli altri astrofisici dicendo che se le sonde erano in attesa di vita intelligente era naturale che fossero ancora silenti.
Parcheggiò e si fiondò all’interno mostrando a malapena il tesserino alla guardia. Quando raggiunse il centro di ricerca trovò gli altri in subbuglio. Si fece largo tra gli scienziati, Jacky stava digitando del codice e non le prestò attenzione, Alex era al telefono e le fece un cenno di saluto. Alla fine trovò Darren, era seduto davanti a un terminale che tamburellava con le dita sul tavolo osservando lo schermo come se dovesse dargli una risposta che non arrivava.
«Darren», lo chiamò quando fu vicina. «Dimmi tutto, che succede?».
«Kamoʻoalewa», disse lui voltandosi.
«Kamo che?».
«È hawaiano, significa “il frammento oscillante”», disse liquidando la faccenda con un gesto della mano. «Piuttosto, hai presente i near-earth objects?».
«Sono oggetti del Sistema Solare la cui orbita può intersecare quella della terra», rispose lei. «So che ci sono delle liste che annoverano molti asteroidi».
«Esatto, molti dei quali sono stati scoperti ma non ne è mai stata mappata la superficie», disse Darren. «Kamoʻoalewa è uno di questi. È stato scoperto nel duemilasedici, puoi trovarlo in letteratura anche con il suo nome provvisorio: 2016 HO3, poi nel duemiladiciannove è stato rinominato ufficialmente. Tutto quello che sapevamo era che ha un diametro di una quarantina di metri, ruota intorno al suo asse ogni ventotto minuti, altre statistiche tecniche e che ruota ellitticamente intorno alla terra mentre ci accompagna nella nostra rotazione attorno al sole».
«Un po’ come fa la Luna», disse Madelin. «È un quasi-satellite?».
«Si, è troppo distante per essere considerato un satellite naturale ma ad oggi è l’esempio più stabile che abbiamo di un quasi-satellite… e da un’ora circa a questa parte sappiamo che è una sonda di Bracewell».
«Ancora non riesco a crederci», disse Madelin scuotendo la testa. «Ero convinta fosse solo un’ipotesi strampalata… più per sollevare il dilemma del “se potessimo entrare in contatto con una civiltà aliena, vorremmo davvero rivelarci?”».
«Lo credevamo tutti…», disse Darren annuendo. «E per quanto riguarda il dilemma, direi che al punto in cui siamo, non ha più molta importanza…».
«I protocolli SETI sono in funzione, le frequenze radio sono state liberate», disse Jacky. «Riceviamo la trasmissione da Kamoʻoalewa senza interferenze».
«Inserisci la chiave di codifica che ci ha fornito la Space Enterprise», disse Darren.
Madelin batté il piede a terra senza riuscire a fermarsi nell’attesa che il computer completasse la decriptazione. Nessuno parlò. Ci vollero dieci minuti ma sembrarono come ore, poi all’improvviso si aprì una schermata con simboli a loro noti: si trattava di problemi di trigonometria.
«Probabilmente è il loro modo di rompere il ghiaccio», disse Alex.
«Ho avuto primi appuntamenti peggiori», scherzò Jacki.
«Risolveteli», disse Darren.
«Ha senso», disse Madelin, dovendo scegliere un punto di partenza per comunicare con una civiltà aliena, quale miglior linguaggio della matematica? L’unico a essere identico in tutto l’universo. «Credo sia un buon segno, se avessero avuto intenzioni aggressive non avrebbero perso tempo a giocare con la trigonometria no?».
«Si spera…», disse Jacki inarcando le sopracciglia.
«Confermano dall’ESA che diverse trasmissioni sotto forma di fasci laser sono partite dalla sonda», disse Alex riattaccando il telefono. «Non dirette a noi».
Madelin inspirò profondamente ed esalò.
«Abbiamo finito», disse Jacki pochi minuti dopo. «Quali sono le direttive delle Nazioni Unite?».
«Dal momento che hanno già comunicato a casa che noi siamo qui…», disse Alex facendo spallucce. «La direttiva è di entrare in contatto».
«Allora trasmettete le risposte», disse Darren.
Madelin deglutì quando la collega premette il tasto invio. Passarono pochi secondi in silenzio, poi iniziarono a ricevere una fiumana di dati da Kamoʻoalewa che sembrava non avere fine. Si voltò per andare a prendere una boccata d’aria e le cadde lo sguardo sul maxischermo. Inquadrata c’era la sonda che si trovava particolarmente vicino alla Terra in quel momento, poco più di cinque milioni di chilometri, come tredici volte e mezza la distanza Terra-Luna.
«Ragazzi…», disse in un sussurro. «Date un occhio allo schermo».
«Sembra muoversi qualcosa sulla superficie», disse Darren aggrottando la fronte.
«Sta… sta aprendosi un vano?», chiese Jacki. «Sta sganciando qualcosa…».
«È… un’unità d’atterraggio…», realizzò Madelin. «Ci sta inviando qualcosa…».
Il telefono squillò e Alex rispose in una frazione di secondo, poi appoggiò una mano sulla cornetta allontanandola dalla bocca.
«È il segretario della difesa», disse. «Vuole sapere se lo riteniamo una minaccia».
Madelin arricciò la bocca e guardò gli altri.
«Come diavolo facciamo a saperlo?», disse allargando le braccia. «Credo di no…».
«Perché dovrebbero farci del male dopo averci mandato una verifica di matematica da scuole superiori?», ragionò Darren. «In ogni caso non mi sembra una buona idea sparargli, digli questo».
Alex annuì e riferì il messaggio.
«Quanti giorni impiegherà ad arrivare?», Madelin fremeva tanto che si torceva le mani.
«Non credo si tratterà di giorni…», disse Jacki grattandosi la testa. «Ha raggiunto la velocità di un milione di chilometri orari e continua ad accelerare… insomma, tra poche ore potrebbe essere qui…».
Madelin strabuzzò gli occhi e vide che anche Darren aveva un’espressione incredula stampata sul volto.
«Sono velocità da propulsione ad antimateria…».
Madelin passò le ore seguenti a camminare avanti e indietro per il corridoio cercando di metabolizzare quanto stava succedendo. Aveva iniziato la giornata sparando agli alieni al computer in compagnia di un paio di amici e una pizza e poche ore dopo stava per avere il primo contatto alieno della storia dell’umanità… sembrava troppo per una sola giornata. Aveva la sensazione di vivere la vita di un’altra persona, come se si vedesse da una posizione sopraelevata rispetto al proprio corpo, come se stesse guardando un film, come… un gioco di ruolo in terza persona.
«Madelin», la chiamò Darren dopo un po’ di tempo. «Ci siamo, ha impattato con l’atmosfera».
«Dobbiamo sapere dove atterrerà», stava dicendo Alex parlando con chissà chi al telefono, poi corrugò la fronte. «In che senso “alla nostra porta”?».
«Cazzo atterrerà qui fuori?!», sbottò Madelin.
«Deve aver preso le coordinate di dove è partito il messaggio di risposta che abbiamo inviato», ragionò Darren ma Madelin era già partita.
Si precipitò fuori e gli altri la seguirono a ruota. In cielo era già visibile una struttura sferica di colore metallico che sorvolava la città frenando la caduta mediante un unico propulsore. A un certo punto si aprì un paracadute e pian piano la sfera si adagiò davanti alla porta del dipartimento.
Aveva un metro di diametro e sembrava ricavata da un unico blocco metallico. Madelin si avvicinò a piccoli passi e mentre ci girava intorno per vedere se ci fossero delle aperture, nella metà alta si formarono delle fessure da cui uscì uno sbuffo di vapore e il guscio termico si schiuse rivelando all’interno uno scompartimento foderato con del materiale protettivo. Posata all’interno c’era una scatola nera delle dimensioni di un portagioie. Con trepidazione infilò le mani nello scompartimento ed estrasse la scatola portandola all’altezza del viso. Pesava qualche chilo, era liscia al tatto e aveva delle piccole aperture su un lato. Gli arti le tremavano e si reggeva in piedi a stento. Quello che stringeva in mano era il primo manufatto alieno pervenuto in tutta la storia dell’umanità.
«Sembra un’unità di memoria», disse e le venne da ridere tanto era eccitata.
Ci volle diverso tempo per decriptare tutti i dati che erano stati inviati dalla sonda e nei mesi seguenti Madelin e gli altri furono impegnati a studiarli. C’era l’equivalente moderno di una dettagliatissima Stele di Rosetta per cui con l’aiuto di un team di linguisti decifrarono la lingua aliena con sufficiente precisione da tradurne alcune parti e così scoprirono le istruzioni per realizzare un avanzato plug-in di traduzione automatica che rese molto più facile tradurre il resto delle informazioni che si rivelarono essere istruzioni per l’uso dell’unità di memoria. Cavi adatti a collegarla ai nostri computer furono inventati e costruiti, vennero scritti dei programmi appositi per accedere ai contenuti e finalmente venne il giorno in cui furono pronti a collegare l’unità per la prima volta.
Madelin prese il cavo e ne attaccò un’estremità al supercomputer della NASA e l’altra a una delle piccole fessure presenti alla base dell’unità di memoria aliena. Ci vollero solo pochi secondi e si aprì una finestra sul terminale, vi si trovava una serie di venti cartelle, tutte contrassegnate da un lucchetto a parte la prima. A un tratto apparve una casella di testo con un messaggio scritto, bastò un click per tradurlo.
Sempre brillante sia la vostra stella. Abbiamo una grande quantità di soluzioni e conoscenze da condividere con il vostro popolo ma le cartelle che le contengono verranno sbloccate solo dopo un primo contatto quando ci saremo accertati che ne siate meritevoli. Nel frattempo, vi porgiamo un dono, è un progetto che noi chiamiamo “Storia dei Popoli”.
Madelin lesse tutto in silenzio con il cuore che le scoppiava nel petto. Il titolo dell’unica cartella accessibile era appunto “Storia dei Popoli”. Che fosse un’enciclopedia delle forme di vita dell’universo? Jacki aprì la cartella e un altro messaggio apparì.
Il primo passo per la comprensione reciproca è la conoscenza di sé stessi.
Trovarono diverse cartelle all’interno delle quali c’erano dati, rilevamenti e fotografie a così alta risoluzione da riuscire a vedere il pianeta come se lo si stesse sorvolando con un drone.
«Questa però non è la Terra», disse Alex.
«Invece si…», lo corresse Madelin in un sospiro. «Quella che vedi è la Pangea…».
Darren la guardò sconvolto.
«Quante immagini ci sono?», chiese trattenendo il fiato.
Jacki andò sulla proprietà della cartella.
«Quasi…», disse umettandosi le labbra. «Quasi centodieci miliardi».
Madelin inarcò le sopracciglia ed espirò.
Davanti ai loro occhi spalancati risiedevano, perfettamente documentati nei minimi dettagli, gli ultimi trecento milioni di anni della Terra, inclusa l’intera storia della civiltà umana.
I suoi compagni stavano sistemando le barricate come meglio potevano ma creare un perimetro sicuro sembrava un’impresa impossibile. Gli alieni saltavano oltre le palizzate o cercavano di demolirle stridendo come impazziti alla ricerca di un pasto a base di carne umana. Buttò il caricatore vuoto e ne inserì un altro appena in tempo per abbattere una creatura dalle lunghe zampe e il corpo longilineo che le si stava gettando addosso. Poi, sfruttando la copertura fornita da un’auto, si appoggiò sul cofano per darsi stabilità e sparò su tutto ciò che vedeva muoversi nell’erba alta della campagna.
«Zona est sotto controllo», disse. «Jack, come va con la barricata?».
«È complet… ma arriv… in branco!», urlò lui alle sue spalle, il segnale era disturbato. «Non… fermarli… raggiunger… città».
Bzzz…
Come se questo non bastasse, sentì vibrare il telefono. Chi diavolo doveva chiamarla proprio in quel momento?!
Bzzz…
Lo ignorò. Chiunque fosse, poteva aspettare.
«Portate il carro col vulcan e sistematelo al centro», disse. «Dobbiamo fermarli qui!».
Bzzz…
Dalla zona buia oltre al perimetro improvvisato giungevano i latrati e gli stridii degli alieni che si lanciavano alla carica, erano di ogni forma e dimensione ma avevano una cosa in comune: la frenesia omicida.
Bzzz…
«E che cazzo!», esclamò Madelin. Lanciò una granata al fosforo e afferrò il telefono. «Uff…», scostò una cuffia dell’headset dall’orecchio e rispose alla chiamata reggendolo con la spalla.
«Madelin!», le arrivò la voce del collega.
«Ciao Darren, che succede?».
«L’hanno fatto, Madelin!», disse lui. «La Space Enterprise, le voci erano vere!».
«Hanno cercato le sonde di Bracewell?!».
«Si, è ufficiale».
«Senza l’autorizzazione dell’ONU?!».
«Non ne sapeva niente nessuno. Le Nazioni Unite stanno organizzando una seduta straordinaria, il Segretario Generale è incazzato come una iena».
«Madelin?», disse Kevin nel suo orecchio sinistro. «Belle le Nazioni Unite, ma concentrati che stiamo tutti morendo qui».
«Un secondo Kev, sono al telefono per lavoro», rispose lei, poi tornò a rivolgersi a Darren. «Eh… lo credo bene, nemmeno l’ONU avrebbe avuto l’autorità morale per autorizzarne la ricerca, figurarsi un privato. Spero lo distruggano di sanzioni!», lanciò una seconda granata al fosforo oltre alla barricata mentre Jack metteva in moto il vulcan crivellando ogni forma di vita aliena osasse mostrare il suo brutto muso.
«Madelin…», disse Darren nel suo orecchio destro.
«Insomma, una decisione del genere ha impatto sull’umanità intera…», lo interruppe lei indignata ed esaltata al tempo stesso.
«Bella granata!», venne dal sinistro.
«Nel senso… come cazzo si permettono?».
«Esatto! Co… cazzo …ermettono?!», urlò Jack di rimando senza smettere di smitragliare. «Tornatev… sul vos… pianeta!».
«Madelin», disse Darren alzando la voce. «Ne hanno trovata una…».
Madelin si bloccò.
«…si è attivata, sta trasmettendo dei dati», continuò lui. «Ci servi qui».
«Madz? Stai laggando?», sentì nell’orecchio sinistro. «Ci servirebbe aiuto con questi alieni…».
Quanto cazzo avete ragione…
«Arrivo subito», disse chiudendo la chiamata.
«Ah finalmente!».
«Non dicevo a voi, mi spiace ma devo staccare».
«Ma sia… a fine …ssione!», protestò Jack.
«Lo so, cause di forza maggiore», disse. «Mi farò perdonare la prossima volta».
«Che diavol… è una son… di Brace…?»,
«Jack, fai qualcosa per quel microfono, sei insopportabile! Ciao!».
Madz ha abbandonato la partita
Si preparò in fretta e furia tanto che indossò due calzini destri, ne tolse uno ma non trovò quello spaiato quindi tolse anche l’altro e lanciò tutti e due in aria per indossarne un nuovo paio. Mentre si avviava alla porta notò il cartone della pizza sul tavolo: rimaneva un’ultima fetta. Era ormai fredda ma non sapeva se sarebbe rincasata in giornata e sarebbe stato crudele lasciarla lì tutta da sola per chissà quanto tempo, quindi l’afferrò e se l’infilò in bocca finendola mentre scendeva dalle scale. Al cartone invece un po’ di solitudine non avrebbe fatto male, si disse.
Non abitava lontana dalla NASA, era questione di soli venti minuti di macchina, ma i suoi pensieri ebbero lo stesso il tempo di divagare. Le ronzava ancora in testa la domanda di Jack: che diavolo è una sonda di Bracewell? Non poteva dire di aver effettivamente studiato l’argomento, dopotutto si trattava di un’ipotesi assurda formulata all’inizio degli anni sessanta. Frank Drake aveva appena formulato la sua equazione per stimare quante fossero le forme di vita intelligenti nell’universo e Ronald Bracewell si spinse oltre chiedendosi se fosse davvero necessario andare chissà dove per trovare delle civiltà aliene. La sua proposta si basava sul presupposto che se noi abbiamo avuto un boom tecnologico negli ultimi duecento anni che ci ha portati dalla pila di Volta al mandare dei rover su Marte, chissà quanto potrebbe essere avanzata una civiltà che ha avuto lo stesso tipo di boom tecnologico che stiamo sperimentando noi ma per un milione di anni?! La loro tecnologia sarebbe così avanzata da sembrarci magia, come disse Arthur C. Clarke.
Come noi stiamo cercando delle forme di vita sui pianeti che si trovano nelle zone abitabili delle rispettive stelle è giusto presumere che anche loro abbiano fatto i loro cataloghi e, avanzati come sono, potrebbero anche aver inviato sonde ovunque intorno a tutti i pianeti che avevano delle probabilità di generare un giorno della vita senziente, sonde che magari sono in grado di autoripararsi e rimanere dormienti per centinaia di migliaia se non milioni di anni. Questo si era chiesto Bracewell: potrebbero delle sonde aliene essere già presenti all’interno del sistema solare, in silente attesa di capire se delle forme di vita intelligenti si fossero sviluppate sulla Terra? Quando saltava fuori l’argomento, Madelin spesso scherzava con gli altri astrofisici dicendo che se le sonde erano in attesa di vita intelligente era naturale che fossero ancora silenti.
Parcheggiò e si fiondò all’interno mostrando a malapena il tesserino alla guardia. Quando raggiunse il centro di ricerca trovò gli altri in subbuglio. Si fece largo tra gli scienziati, Jacky stava digitando del codice e non le prestò attenzione, Alex era al telefono e le fece un cenno di saluto. Alla fine trovò Darren, era seduto davanti a un terminale che tamburellava con le dita sul tavolo osservando lo schermo come se dovesse dargli una risposta che non arrivava.
«Darren», lo chiamò quando fu vicina. «Dimmi tutto, che succede?».
«Kamoʻoalewa», disse lui voltandosi.
«Kamo che?».
«È hawaiano, significa “il frammento oscillante”», disse liquidando la faccenda con un gesto della mano. «Piuttosto, hai presente i near-earth objects?».
«Sono oggetti del Sistema Solare la cui orbita può intersecare quella della terra», rispose lei. «So che ci sono delle liste che annoverano molti asteroidi».
«Esatto, molti dei quali sono stati scoperti ma non ne è mai stata mappata la superficie», disse Darren. «Kamoʻoalewa è uno di questi. È stato scoperto nel duemilasedici, puoi trovarlo in letteratura anche con il suo nome provvisorio: 2016 HO3, poi nel duemiladiciannove è stato rinominato ufficialmente. Tutto quello che sapevamo era che ha un diametro di una quarantina di metri, ruota intorno al suo asse ogni ventotto minuti, altre statistiche tecniche e che ruota ellitticamente intorno alla terra mentre ci accompagna nella nostra rotazione attorno al sole».
«Un po’ come fa la Luna», disse Madelin. «È un quasi-satellite?».
«Si, è troppo distante per essere considerato un satellite naturale ma ad oggi è l’esempio più stabile che abbiamo di un quasi-satellite… e da un’ora circa a questa parte sappiamo che è una sonda di Bracewell».
«Ancora non riesco a crederci», disse Madelin scuotendo la testa. «Ero convinta fosse solo un’ipotesi strampalata… più per sollevare il dilemma del “se potessimo entrare in contatto con una civiltà aliena, vorremmo davvero rivelarci?”».
«Lo credevamo tutti…», disse Darren annuendo. «E per quanto riguarda il dilemma, direi che al punto in cui siamo, non ha più molta importanza…».
«I protocolli SETI sono in funzione, le frequenze radio sono state liberate», disse Jacky. «Riceviamo la trasmissione da Kamoʻoalewa senza interferenze».
«Inserisci la chiave di codifica che ci ha fornito la Space Enterprise», disse Darren.
Madelin batté il piede a terra senza riuscire a fermarsi nell’attesa che il computer completasse la decriptazione. Nessuno parlò. Ci vollero dieci minuti ma sembrarono come ore, poi all’improvviso si aprì una schermata con simboli a loro noti: si trattava di problemi di trigonometria.
«Probabilmente è il loro modo di rompere il ghiaccio», disse Alex.
«Ho avuto primi appuntamenti peggiori», scherzò Jacki.
«Risolveteli», disse Darren.
«Ha senso», disse Madelin, dovendo scegliere un punto di partenza per comunicare con una civiltà aliena, quale miglior linguaggio della matematica? L’unico a essere identico in tutto l’universo. «Credo sia un buon segno, se avessero avuto intenzioni aggressive non avrebbero perso tempo a giocare con la trigonometria no?».
«Si spera…», disse Jacki inarcando le sopracciglia.
«Confermano dall’ESA che diverse trasmissioni sotto forma di fasci laser sono partite dalla sonda», disse Alex riattaccando il telefono. «Non dirette a noi».
Madelin inspirò profondamente ed esalò.
«Abbiamo finito», disse Jacki pochi minuti dopo. «Quali sono le direttive delle Nazioni Unite?».
«Dal momento che hanno già comunicato a casa che noi siamo qui…», disse Alex facendo spallucce. «La direttiva è di entrare in contatto».
«Allora trasmettete le risposte», disse Darren.
Madelin deglutì quando la collega premette il tasto invio. Passarono pochi secondi in silenzio, poi iniziarono a ricevere una fiumana di dati da Kamoʻoalewa che sembrava non avere fine. Si voltò per andare a prendere una boccata d’aria e le cadde lo sguardo sul maxischermo. Inquadrata c’era la sonda che si trovava particolarmente vicino alla Terra in quel momento, poco più di cinque milioni di chilometri, come tredici volte e mezza la distanza Terra-Luna.
«Ragazzi…», disse in un sussurro. «Date un occhio allo schermo».
«Sembra muoversi qualcosa sulla superficie», disse Darren aggrottando la fronte.
«Sta… sta aprendosi un vano?», chiese Jacki. «Sta sganciando qualcosa…».
«È… un’unità d’atterraggio…», realizzò Madelin. «Ci sta inviando qualcosa…».
Il telefono squillò e Alex rispose in una frazione di secondo, poi appoggiò una mano sulla cornetta allontanandola dalla bocca.
«È il segretario della difesa», disse. «Vuole sapere se lo riteniamo una minaccia».
Madelin arricciò la bocca e guardò gli altri.
«Come diavolo facciamo a saperlo?», disse allargando le braccia. «Credo di no…».
«Perché dovrebbero farci del male dopo averci mandato una verifica di matematica da scuole superiori?», ragionò Darren. «In ogni caso non mi sembra una buona idea sparargli, digli questo».
Alex annuì e riferì il messaggio.
«Quanti giorni impiegherà ad arrivare?», Madelin fremeva tanto che si torceva le mani.
«Non credo si tratterà di giorni…», disse Jacki grattandosi la testa. «Ha raggiunto la velocità di un milione di chilometri orari e continua ad accelerare… insomma, tra poche ore potrebbe essere qui…».
Madelin strabuzzò gli occhi e vide che anche Darren aveva un’espressione incredula stampata sul volto.
«Sono velocità da propulsione ad antimateria…».
Madelin passò le ore seguenti a camminare avanti e indietro per il corridoio cercando di metabolizzare quanto stava succedendo. Aveva iniziato la giornata sparando agli alieni al computer in compagnia di un paio di amici e una pizza e poche ore dopo stava per avere il primo contatto alieno della storia dell’umanità… sembrava troppo per una sola giornata. Aveva la sensazione di vivere la vita di un’altra persona, come se si vedesse da una posizione sopraelevata rispetto al proprio corpo, come se stesse guardando un film, come… un gioco di ruolo in terza persona.
«Madelin», la chiamò Darren dopo un po’ di tempo. «Ci siamo, ha impattato con l’atmosfera».
«Dobbiamo sapere dove atterrerà», stava dicendo Alex parlando con chissà chi al telefono, poi corrugò la fronte. «In che senso “alla nostra porta”?».
«Cazzo atterrerà qui fuori?!», sbottò Madelin.
«Deve aver preso le coordinate di dove è partito il messaggio di risposta che abbiamo inviato», ragionò Darren ma Madelin era già partita.
Si precipitò fuori e gli altri la seguirono a ruota. In cielo era già visibile una struttura sferica di colore metallico che sorvolava la città frenando la caduta mediante un unico propulsore. A un certo punto si aprì un paracadute e pian piano la sfera si adagiò davanti alla porta del dipartimento.
Aveva un metro di diametro e sembrava ricavata da un unico blocco metallico. Madelin si avvicinò a piccoli passi e mentre ci girava intorno per vedere se ci fossero delle aperture, nella metà alta si formarono delle fessure da cui uscì uno sbuffo di vapore e il guscio termico si schiuse rivelando all’interno uno scompartimento foderato con del materiale protettivo. Posata all’interno c’era una scatola nera delle dimensioni di un portagioie. Con trepidazione infilò le mani nello scompartimento ed estrasse la scatola portandola all’altezza del viso. Pesava qualche chilo, era liscia al tatto e aveva delle piccole aperture su un lato. Gli arti le tremavano e si reggeva in piedi a stento. Quello che stringeva in mano era il primo manufatto alieno pervenuto in tutta la storia dell’umanità.
«Sembra un’unità di memoria», disse e le venne da ridere tanto era eccitata.
Ci volle diverso tempo per decriptare tutti i dati che erano stati inviati dalla sonda e nei mesi seguenti Madelin e gli altri furono impegnati a studiarli. C’era l’equivalente moderno di una dettagliatissima Stele di Rosetta per cui con l’aiuto di un team di linguisti decifrarono la lingua aliena con sufficiente precisione da tradurne alcune parti e così scoprirono le istruzioni per realizzare un avanzato plug-in di traduzione automatica che rese molto più facile tradurre il resto delle informazioni che si rivelarono essere istruzioni per l’uso dell’unità di memoria. Cavi adatti a collegarla ai nostri computer furono inventati e costruiti, vennero scritti dei programmi appositi per accedere ai contenuti e finalmente venne il giorno in cui furono pronti a collegare l’unità per la prima volta.
Madelin prese il cavo e ne attaccò un’estremità al supercomputer della NASA e l’altra a una delle piccole fessure presenti alla base dell’unità di memoria aliena. Ci vollero solo pochi secondi e si aprì una finestra sul terminale, vi si trovava una serie di venti cartelle, tutte contrassegnate da un lucchetto a parte la prima. A un tratto apparve una casella di testo con un messaggio scritto, bastò un click per tradurlo.
Sempre brillante sia la vostra stella. Abbiamo una grande quantità di soluzioni e conoscenze da condividere con il vostro popolo ma le cartelle che le contengono verranno sbloccate solo dopo un primo contatto quando ci saremo accertati che ne siate meritevoli. Nel frattempo, vi porgiamo un dono, è un progetto che noi chiamiamo “Storia dei Popoli”.
Madelin lesse tutto in silenzio con il cuore che le scoppiava nel petto. Il titolo dell’unica cartella accessibile era appunto “Storia dei Popoli”. Che fosse un’enciclopedia delle forme di vita dell’universo? Jacki aprì la cartella e un altro messaggio apparì.
Il primo passo per la comprensione reciproca è la conoscenza di sé stessi.
Trovarono diverse cartelle all’interno delle quali c’erano dati, rilevamenti e fotografie a così alta risoluzione da riuscire a vedere il pianeta come se lo si stesse sorvolando con un drone.
«Questa però non è la Terra», disse Alex.
«Invece si…», lo corresse Madelin in un sospiro. «Quella che vedi è la Pangea…».
Darren la guardò sconvolto.
«Quante immagini ci sono?», chiese trattenendo il fiato.
Jacki andò sulla proprietà della cartella.
«Quasi…», disse umettandosi le labbra. «Quasi centodieci miliardi».
Madelin inarcò le sopracciglia ed espirò.
Davanti ai loro occhi spalancati risiedevano, perfettamente documentati nei minimi dettagli, gli ultimi trecento milioni di anni della Terra, inclusa l’intera storia della civiltà umana.